Pesaro, 4 novembre 2008 – Lettera al Messaggero – Cronaca di Pesaro
Egregio Direttore,
quello della violenza sui minori è un tema che torna, più o meno regolare, all’attenzione della cronaca. E poiché la notizia di cronaca, anche negli episodi più recenti, si limita al racconto dei fatti o al massimo accenna a descrivere sofferenze individuali circoscritte al momento, penso sia utile qualche riflessione sulla complessità di questi fenomeni, che possono segnare tutta la vita di una persona, ma che – soprattutto – riescono a incatenare tra loro più generazioni, in una spirale perversa di dolore.
Cosa spinge un uomo a picchiare una donna, un genitore a picchiare i propri figli?
Le cause vanno ricercate nella storia del singolo individuo, nel rapporto con la sua famiglia d’origine. Un bambino, fin dalla nascita, sviluppa nell’interazione con i genitori i c.d. Modelli Operativi Interni (MOI) che sono rappresentazioni interne di se stesso, delle figure genitoriali e delle relazioni che li legano. Crescendo, questi Modelli si stabilizzano e, dell’adulto, guidano le aspettative e i comportamenti, in ambito privato e professionale. E’ così che le esperienze difficili o traumatiche nell’infanzia rimangono inscritte internamente ed esercitano profonde e insidiose influenze sulla vita dell’adulto.
E’ noto che i bambini abusati fisicamente presentano numerosi problemi psicologici e oggi sappiamo anche che chi ha subito un abuso ha molte probabilità di diventare a sua volta una persona che abusa.
Il caso clinico del bambino Greg e di sua madre Annie, pubblicato nel 1999 dalla Fraiberg, illustra con chiarezza il problema.
Greg era un neonato di 3 mesi e mezzo, figlio di una madre adolescente di 16 anni che si rifiutava di prendersi cura di lui ed evitava il contatto fisico con il figlio. Annie veniva da un passato di promiscuità, abbandono, delinquenza, abusi infantili, ed era la terza generazione di madri che avevano abbandonato i loro bambini. Il padre di Annie era morto quando la bimba aveva 5 anni e il nuovo patrigno, un alcolizzato, la picchiava duramente. Annie aveva piena memoria delle esperienze di abuso subite nell’infanzia, ma non della propria sofferenza, che era stata completamente rimossa. Di tutto ciò la ragazza non era consapevole e suo figlio non era al sicuro.
In Greg si sono osservate due forme difensive in momenti evolutivi diversi. A 3 mesi e mezzo si è manifestato l’evitamento, un indicatore precoce di disturbo nella relazione madre-bambino, una modalità di difesa comune a tutti i bambini, ma che in Greg aveva preso una piega patologica.
Greg evitava la madre, non la guardava, non le rivolgeva mai sorrisi, né tantomeno vocalizzi, non le si rivolgeva neanche quando era angosciato. Lo scopo era evitare il dolore; il bambino percepiva la madre come uno stimolo negativo.
La seconda modalità di difesa maturò intorno ai 16 mesi, la c.d. trasformazione affettiva: Greg reagiva alla voce stridula e minacciosa della madre con un sorriso svagato, rideva in maniera stupida, isterica. Gli affetti dolorosi si erano trasformati in affetti di piacere (apparente).
La cosa più sorprendente fu che la modalità di difesa utilizzata da Greg era stata quella che anche Annie aveva adottato durante la sua infanzia.
Grazie a un percorso di analisi, Annie ha potuto riconoscere ed esprimere la propria rabbia insieme ad altri sentimenti negativi, come paura, tristezza e senso di abbandono. Ciò le ha permesso di avvicinarsi a suo figlio, di poterlo abbracciare e confortare, mentre prima aveva avuto paura di farlo, perché temeva che i suoi impulsi sadici e distruttivi avrebbero potuto indurla a fargli del male.
Il caso del piccolo Greg e di sua madre Annie ci conforta: se c’è la possibilità di riportare a galla i vissuti affettivi rimossi, diventandone consapevoli, ci sono buone possibilità di evitare di diventare persone che abusano di altri e, soprattutto, c’è la possibilità di spezzare la spirale perversa del dolore.