Rina, Marga, Vincenza, Eloisa: quattro donne diverse tra loro, ma legate da una colpa comune: l’infanticidio.
PROGETTO “FROM MEDEA” è stato ideato e progettato dalla Professoressa Claudia Rondolini, la quale mi ha dato la possibilità di farvi parte. Il progetto è nato anche con il patrocino dell’Associazione Amici della Prosa e ha coinvolto diverse scuole superiori di classi 4a e 5a.
L’oggetto era “l’infanticidio”, tema scaturito dal libro “From Medea” di Grazia Verasani. Io ho trattato la depressione post-partum citando anche un caso clinico, in modo da coniugare teoria e pratica e rendere meno “difficile” un argomento molto impegnativo.
La Professoressa Claudia Rondolini ha parlato del mito di Medea, mentre Cristian Della Chiara, Direttore Artistico del GAD, ha esplorato il lavoro teatrale “From Medea”, realizzato nel 2011 dalla compagnia “Cattivi di cuore”.
In ultimo abbiamo avuto il piacere di avere Grazia Verasani, che ci ha raccontato come è nata l’idea di realizzare questo libro.
Di seguito cito brevemente la sinossi del libro:
Rina, Marga, Vincenza, Eloisa: quattro donne diverse tra loro, ma legate da una colpa comune: l’infanticidio. Chiuse in una stanza, all’interno di un carcere psichiatrico giudiziario, espiano una condanna che è soprattutto interiore: il senso di colpa per un “gesto” che ha vanificato le loro esistenze. Nel rapportarsi l’una all’altra provano una sorta di svuotamento dell’anima che le porta a confrontare un dolore germogliato nella contraddizione di sentirsi “colpevoli-innocenti”. Il testo è giocato in modo da ossigenare l’aspetto doloroso con momenti di leggerezza liberatoria.
Questi alcuni stralci del suo intervento:
L’istinto materno non è obbligatorio.
La condizione sociale e psicologica in cui vive una madre va sempre considerata. Ho pensato a questo, cominciando a scrivere la piece. E ho preso a documentarmi, a leggere, a cercare di capire qualcosa della depressione pre e post partum. Ma From Medea resta essenzialmente un’opera di fantasia.
La molla è scattata guardando in tv certi programmi (o leggendo certi articoli) dove specialisti a gettone e vari opinionisti trattavano con superficialità l’argomento. Ero stanca di giudizi approssimativi, di condanne da salotto, di semplificazioni. Stanca anche di sentire in tv donne puntare il dito contro altre donne, dipingendosi come madri perfette. Nel caso Franzoni, ad esempio, l’attenzione non era rivolta al bambino ucciso ma alla morbosità mediatica di individuare il “mostro” attraverso i primi piani e le espressioni del viso, in una sorta di gioco di società come quando si guarda Sanremo. Ero stanca di vedere troppa gente giudicare.
La mente umana è un pozzo profondo. Essere madre è una cosa dura, complicata, non è come nelle pubblicità, non è sempre quella cosa naturale e meravigliosa che ci sbandierano certe attrici famose o donne che hanno i mezzi per vivere una maternità “serena”.
Perché non si dice mai quanto è dura crescere un figlio? Quanto una donna possa sentirsi spiazzata, inadeguata, terrorizzata di sbagliare davanti alla responsabilità di crescere qualcuno che dipende in tutto e per tutto da lei?
Una donna che uccide un figlio, e ha un’anima, una coscienza, uccide se stessa, e sconta una condanna ben più profonda del carcere. I casi di tentato suicidio sono moltissimi.
Ho cercato di immergermi, di immedesimarmi, di provare empatia per queste quattro donne.
Ci sono infanticide che rimuovano il fatto, e il giorno in cui lo ricordano inizia l’inferno. Per un senso di colpa insostenibile. Non sanno perché sono andate in corto circuito. Sono crollate, si sono ammalate, e pagano un prezzo altissimo alla propria coscienza.
La maternità è una libera scelta. Oggi poi, per le donne che lavorano, è un lusso da rimandare. (Perché tacere come una vergogna le rinunce sociali a cui ti obbliga un figlio? Perché credere ancora che una donna senza figli è una specie di “mutilata”? Perché ancora con questa paccottiglia cattolica della maternità all’acqua di rose?)
Ci si aspetta troppo dalle madri. E si grida all’orrore per i delitti in famiglia, come se la famiglia fosse intoccabile, ignorando che la maggior parte dei delitti avviene proprio in famiglia.
Desideravo che a queste 4 donne il lettore si affezionasse, ne vedesse il bene e non solo il male.
Non volevo giustificarle, ma descrivere le loro esistenze. Senza giudicarle.