Intervento al convegno LA DIFFERENZA È DONNA, Pesaro, 26 maggio 2011.
Un approccio psicoanalitico ai problemi posti da relazioni disturbate madre-bambino. (Selma Fraiberg Il sostegno allo sviluppo).
Il problema della violenza in famiglia sui minori è un tema che torna, più o meno regolarmente, all’attenzione della cronaca, lasciandoci, spesso, sconvolti.
E poichè le notizie di cronaca si limitano al racconto dei fatti o al massimo accennano a descrivere sofferenze individuali circoscritte al momento, penso sia utile qualche riflessione sulla complessità di questi fenomeni.
Perché certi fatti accadono? Come possono stravolgere le vite di molte persone, come riescono a incatenare tra loro più generazioni? Ecco, oggi cercheremo di capirlo, insieme.
Cercheremo di comprendere come una madre, sua figlia e suo nipote, possano essere legati in una spirale perversa di dolore. Si tratta di una relazione madre-figlio gravemente disturbata.
E’ questa la storia del caso clinico che ora vi presento, pubblicato da Selma Fraiberg nel libro “Il sostegno allo sviluppo”, uscito in Italia 1999, nel capitolo “I fantasmi nella stanza dei bambini”: ci parla di Greg e di sua madre Annie, e illustra con chiarezza come sia purtroppo possibile trasmettere/trasporre al proprio figlio ciò che si è subito nell’infanzia.
Greg è un neonato di 3 mesi; ha una madre adolescente di 16 anni che si rifiuta di prendersi cura di lui, evita il contatto fisico con il figlio, lo trascura, spesso si dimentica di comprargli il latte e lo nutre con alghe e tisane liofilizzate. Annie è una ragazza depressa, che alterna momenti depressivi con momenti di rabbia accesa.
La famiglia di Annie viene da un passato di promiscuità (la madre di Annie ha avuto 6 figli da 4 padri diversi). Abbandono, abusi infantili, trascuratezza, abbandono scolastico.
Annie rappresenta la terza generazione di madri che hanno abbandonato, effettivamente o psicologicamente, il proprio bambino.
Ogni volta che il piccolo richiede attenzione, la madre si rivolge al marito, 19enne, affinché si prenda cura di lui.
Da piccola – racconta Annie – si doveva occupare della sorellina minore, a 9 anni era responsabile delle pulizie della casa, della cucina e delle cure degli altri fratelli.
La madre di Annie abbandonava periodicamente la famiglia, il padre era morto quando Annie aveva 5 anni e il suo patrigno, alcolizzato (e forse psicotico) la picchiava duramente con un legno per banali disubbidienze.
Perché Annie evita di toccare il suo bambino? Perché evita di rispondere al pianto del suo bambino?
Annie ha tanta paura di avvicinarsi a suo figlio, perché teme che gli impulsi sadici e distruttivi la portino concretamente a picchiarlo e ucciderlo. Naturalmente, di tutto questo la ragazza non è consapevole, e quindi il bambino non è affatto al sicuro.
In Greg si sono osservate due forme difensive, in momenti evolutivi diversi, rapportati al modificarsi della situazione esterna, che poi è la relazione con la madre.
La prima forma difensiva si è manifestata a 3 mesi e mezzo: l’evitamento. Osservando la relazione madre/bambino, La Fraiberg ha considerato questa difesa come patologica.
Perché?
L’evitamento è una forma di difesa che può essere riscontrata in tutti i bambini, inclusi quelli normali. Una ricerca condotta nel 1978 da Mary Ainsworth aveva colto una marcata tendenza all’evitamento nelle osservazioni fatte sui bambini.
La Fraiberg riprende questo studio e vi legge un indicatore precoce di disturbo nella relazione madre-bambino. In base alle sue osservazioni (Fraiberg) il completo o quasi completo evitamento di Greg nei confronti della madre rappresentava una modalità di difesa che aveva preso una svolta patologica.
Greg evita la madre: non la guarda, non le rivolge sorrisi, né tantomeno vocalizzi, non gira la testa verso di lei, non la cerca mai attivamente, neanche quando è angosciato; anzi, la evita. Come se vista e udito non funzionassero, né nella madre, né nel figlio.
Invece, dalle osservazioni fatte quando è presente il padre, si è visto che il piccolo a lui rivolge sguardi, sorrisi e vocalizzi di piacere.
Dunque, l’evitamento di Greg aveva uno scopo: proteggersi da un dolore. Il bambino percepiva la madre come uno stimolo negativo e, quindi, si difendeva per evitare di vivere un affetto doloroso: l’angoscia.
Ma che cosa succede quando il bambino si trova in una situazione di estremo bisogno o di dolore interno e non c’è nessuno, oltre alla madre, a poterlo aiutare?
Si può immaginare che il piccolo cada in uno stato di impotenza e di disorganizzazione, per cui inizia a piangere e urlare, muovendo disperatamente le braccia e le gambe con movimenti estremi, terminando in uno stato di spossatezza. E’ come urlare nel deserto, per così dire, visto che non viene offerto nessun conforto al bambino, e che lui stesso non cerca nessun conforto.
Stiamo ipotizzando che Greg abbia sperimentato un’angoscia di tale intensità, che il dolore ha raggiunto limiti intollerabili.
Per il loro modo di pensare, nella famiglia di Annie, e anche in quella di suo marito, persino un neonato di pochi mesi viene ritenuto maligno, vendicativo, astuto. Se piange è dispettoso. Se insiste,è ribelle. Se rifiuta di essere compiacente,è viziato. Se non può essere consolato, sta solo provando a esasperare qualcuno, oppure finge, visto che ha smesso di piangere.
Annie ricordava tutto della sua infanzia e delle esperienze di abuso infantile, ma ciò che non ricordava era la propria sofferenza; questa era stata completamente rimossa.
Nel percorso psicoterapeutico, esprimere i vissuti emotivi rimossi contribuisce a diminuire la probabilità del cosiddetto “passaggio all’atto”, cioè – in questo caso – il comportamento nocivo di Annie verso il figlio.
E’ questo processo che consente a eliminare il rischio di abuso. Questo è ciò che è accaduto.
Per Annie è stato molto importante poter esprimere la propria rabbia insieme ad altri sentimenti negativi, come paura, tristezza e senso di abbandono, perché questo le ha consentito di avvicinarsi a suo figlio, di poterlo abbracciare e confortare.
L’amore che, finalmente, Annie ha sentito per suo figlio, le ha consentito di identificarsi con lui e non più con gli aggressori della sua infanzia (madre). Ciò ha protetto il piccolo dall’abuso che la stessa madre aveva subito. Annie arriverà a questa consapevolezza a piccoli passi.
Alla fine del primo anno di trattamento sulla madre, Greg mostra segni di progresso nello sviluppo e un buon attaccamento a sua madre; era come rifiorito, l’evitamento era scomparso.
ùMa poiché il fantasma più ostinato, cioè l’identificazione con l’aggressore, è il più difficile da scardinare in Annie, la ragazza non riesce a controllare impulsi rabbiosi, caratterizzati da una strana voce stridula e minacciosa.
Il bambino, intorno a 16 mesi, acquisisce una difesa contro l’angoscia suscitata dalla rabbia della madre (questa è la seconda modalità difensiva mostrata da Greg).
Greg reagisce alla voce stridula e minacciosa della madre con un sorriso svagato. E’ lo stesso bambino che qualche settimana prima piangeva di paura al suono di quella stessa voce. Gli attacchi di collera di Annie sopraggiungono all’improvviso, e la sua voce cambia da un momento all’altro, diventando stridula, acuta, penetrante, tanto da sembrare di qualcun altro.
Ma Annie non ne è consapevole.
Un giorno, mentre la psicologa assiste a questo cambiamento di voce, le dice: ”A volte, Annie, le parole e i suoni che escono dalla tua bocca non sembrano neppure i tuoi”. Annie risponde: ”Lo so, sembrano proprio di mia madre. Mia madre mi spaventava molto, quando ero piccola.”
La risata nervosa utilizzata da Greg era stata quella che la stessa Annie aveva adottato durante la sua infanzia. Quando il patrigno la picchiava, all’inizio lei piangeva, sperando che lui smettesse. Poi, in seguito, Annie si metteva a ridere. In questo modo le botte facevano meno male, non la colpivano più. Il patrigno la picchiava finché il legno non si spezzava.
Il fenomeno è noto come “Trasformazione Affettiva”: gli affetti dolorosi (la paura) si trasformano in affetti di piacere (la risata).
Quando Annie ne diviene consapevole, grazie al percorso terapeutico, la voce stridula si attenua, così come gli atteggiamenti bruschi. Nel momento in cui Greg può sperimentare sua madre in un clima diverso, la sua paura verso la madre, così come la risata nervosa utilizzata come difesa contro l’angoscia, scompaiono.
E’ dunque grazie al percorso terapeutico che Annie ha potuto riconoscere ed esprimere i propri sentimenti negativi. Ciò le ha permesso di avvicinarsi a suo figlio, mentre prima aveva avuto paura di farlo perché temeva di picchiarlo, se non ucciderlo.
A questo proposito voglio citarvi una ricerca significativa di Lisa Berlin della Duke University del Nord Carolina, pubblicata 2009 in collaborazione con altri cinque atenei: uno studio longitudinale fatto su bambini di diverse età, etnia, sesso, livello sociale, istruzione.
Si è voluto indagare sulle ripercussioni psicoevolutive che ci possono essere sui bambini che vengono picchiati.
E’ emerso che i bambini in queste condizioni presentano numerosi problemi psicologici. Infatti, sembra che essi rispondano in maniera aggressiva a situazioni molto diverse tra loro e più frequentemente di bambini non picchiati. Non dimostrano nessun comportamento di conforto verso gli altri bambini, al contrario, essi intervengono in modo aggressivo e attaccano il bimbo che si trova già in una situazione di difficoltà. Inoltre, presentano un ritardo nello sviluppo mentale. Questi bimbi hanno ottenuto risultati peggiori nei test di misurazione delle capacità cognitive, e da adulti, dimostrano un rischio maggiore di sviluppare comportamenti antisociali.
Oggi sappiamo anche che chi ha subito un abuso potrebbe diventare a sua volta una persona che abusa. Guardate Annie: avrebbe potuto far del male al figlio.
E’ una realtà molto preoccupante.
Ma la storia del piccolo Greg e di sua madre Annie ci conforta: se c’è la possibilità di riportare a galla i vissuti affettivi rimossi diventandone consapevoli, ci sono buone possibilità di evitare di trasformarsi in persone che abusano di altri. C’è la possibilità di spezzare la catena transgenerazionale e di fermare il ciclo della sofferenza e del dolore.
Il rapporto tra questa madre e il suo bambino è cambiato radicalmente, in meglio; Annie è diventata una buona madre per suo figlio.
Di questo è bene che tutti assumiamo piena consapevolezza: a cominciare dalle famiglie, dalla scuola, dagli operatori sociali, per arrivare, ovviamente, alle Istituzioni.
Il percorso terapeutico, finalizzato a far riemergere gli affetti rimossi, è un potente strumento nella prevenzione degli abusi.
BIBLIOGRAFIA
Ainsworth M.D.S., Blehar M.C., Waters E., Wall S., Patterns of attachment: a psychological study on the strange situation, 1978;
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Stettbacher J. Konrad – Perché la sofferenza, il salutare incontro con la propria storia personale; Garzanti, 1991;
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John Bowlby Costruzione e rottura dei legami affettivi; Cortina
Ricerca sull’aggressività sui bambini: Centre for Child and Family Policy Development, Lisa Berlin, Duke University del North Carolina, pubblicata Child Development 2009